NOTA (Il post numero due è bloccato in fase in elaborazione)
Quando parliamo di amore ci vengono in mente gli scenari romantici dei primi momenti, o quello che troviamo nello sconfinante e sconfinato amore genitoriale.
Mi sono chiesta, senza trovare soluzioni, se l’amore non sia che uno.
Amore con connotazioni precise e non confondibili, che può essere nell’amore di coppia, e/o in quello genitoriale (o filiale). Ma può anche non esserci.
Ci può essere un ottimo “lavoro” di accudimento, di presa in carico, di affettività ed emotività, ci possono essere gesti di affiliazione, di gentilezza … tutte cose meravigliose ma non sono ancora amore.
Ci sono quelle fantasmagoriche ondate ormonali, di portata epica, che aprono all’innamoramento, alla passione, e eventualmente risvegliano pure la sessualità.
E che non sono esattamente amore.
C’è la meraviglia della nascita, l’amore infinito verso i figli, il dono della vita, e il bisogno di proteggere e curare e crescere e insegnare. Che ancora non sono amore.
C’è l’amicizia che con l’amore condivide tantissimi confini, e lo rideclina in un mondo singolare e potente.
C’è quindi nell’amore un ingrediente magico e alchimico che è difficile nominare, che può attraversare tutte queste esperienze umane, e renderle altre.
L’amore sta, lo postulo qui per prova, nell’essere in quell’altrove da se, ma collocato nell’altro.
Di essere esattamente se stessi – nelle braccia e/o negli occhi dell’altro – senza fondersi, ma permettendo di esser pienamente vivi proprio grazie a quell’altro/alterità.
Sta nel sentire l’altro come casa, come luogo di fiducia e libertà, luogo libero e che libera veramente; che cresce facendo crescere.
Che si fa umano rendendo umani, e capaci di essere definitivamente se stessi, con e per l’altro, nell’altro.
In cui amore di se e per l’altro / con l’altro / dell’altro ci identificano e ci con-fondono.
Ora la domanda è: si può insegnare? Si può imparare? Come si può fare educazione con questo presupposto?