Se non trovi qualcuno subito al telefono, c’è l’sms, la mail, whatsapp o telegram.
Oppure messenger.
L’importante sapere (sempre) che quella persona è sempre raggiungibile.
Il mito (o il mitologismo) di oggi: l’altro è sempre a disposizione.
Sempre pronto a comunicare, sempre connesso, sempre presente.
La rete in tal senso la fa da padrona.
Tutto c’è, sempre.
L’assenza dell’altro o del suo potenziale virtuale di incontro (cfr. la doppia spunta blu di what’s app) genera ansia, rabbia, frustrazione.
L’altro non dorme mai, non va nemmeno in bagno a farsi una doccia, se mangia è sempre pronto a trovare una risposta, non fa nulla d’altro che restare fermo in quello spazio immaginario, di totale presenza, di assoluta vicinanza, di agognata raggiungibilità.
Non sempre questa attesa di disponibilità totale, si intende, è reciproca.
Questa asfissia ansiosa cresce grazie nei tempi vuoti dell’altro, poiché l’altro a dispetto della pervasività della rete, vive invece di vita propria, poiché l’altro sceglie e detta i tempi delle possibilità comunicative, e laddove prevalga l’attesa di una alterità onnipresente si genera una sorta di invivibilità interazionale, un soffocamento che non fa crescere.
In educazione i tempi vuoti, l’attesa, la noia, il non ancora fatto, il non ancora detto, il limite e il confine, segnano quel preciso luogo che ha senso, solo nella sua potenziale attraversabilità. Attraversare chiede pazienza, parole che fanno da ponte e connettono, distacchi e distanze caratteristiche queste, che necessitano di tempo.
L’attesa in realtà si fa pensiero, la noia diviene creatività, il non tutto subito è accoglienza della diversità altrui. E’ il rocchetto del bimbo, che consente l’attesa della madre, come postulava S. Freud.
La non raggiungibilità, anche laddove la vita e il desiderio pretenderebbero e rivendicherebbro legittimamente una vera urgenza (incidenti, malattia, morte) resta un elemento umano imprescidibile/ineliminabile che va compreso, e appreso per poterne governare le inevitabili componenti emotive e la loro ricaduta sulla azioni quotidiane.
E questo tema, necessariamente, investe/riguarda anche la dimensione organizzativa. Che nasce antropologicamente per gestire ciò che è della vita ossia azioni, costruzioni, lavoro, complessità, cooperazione.
Ma se trasponiamo questa esperienza di attesa di quel tutto subito in una esperienza organizzativa cosa significa quel “ci sei in un tempo che è tutto_subito”?
Che peso assumerà nell’organizzazione una irraggiungibilità che è (esiste) e che avrebbe senso se accettata, rimodulata, formata, insegnata, ripensata, in complementarietà con la sua antetesi: la raggiungibilità. Non riuscire a governare queste dicotomie diventa, come detto, un modo di aspettarsi o pretendere una riposta del tipo tutto/subito, imponendo un ritmo del mondo che non è gestibile, ma frenetico, faticoso, incapace di attendere e maturare, una extrasistole che snatura e svuota di senso e possibilità della naturale dinamica tra presenza assenza. Immaginate una organizzazione che non sappia attendere i tempi attuativi di un progetto, o gli esiti di un processo di trasformazione? Eppure alle persone viene richiesta questa pervasiva presenza, anche laddove non vi sia una vera emergenza.
Quell’innovazione del nostro mondo attuale, interconnesso e iperconnesso, ha certamente incentivato questo mito della raggiungibilità, che arriva per tutti con l’entusiasmo e la fascinazione dei cicalini, del cerca persone, e si consolida con la presenza degli smartphone e delle connessioni wi-fi e hot spot che ci rendono sempre più raggiungibili, eternamente rintracciabili e tracciati (geolocalizzazioni) nel qui ed ora.
Cinquanta anni fa tali possibilità non c’erano, e questo imponeva alle dimensioni organizzative, e a quelle umane, relazionali, amicali, di coppia, amorose, familiari, l’attesa: di una lettera, del centralino che passava la chiamata, della telefonata nelle fasce orarie economicamente più convenienti, del non sapere e del dover attendere.
Oggi non c’è più quel vincolo: oggi il vincolo è
1. ci sei sempre
2. quindi devi esserci sempre.
Tale vincolo richiede una riflessione educativa e pedagogica, perché il tempo che viviamo è preziosamente e per tutti il tempo della vita (che avvenga nel mondo personale o in quello professionale); e ciò che l’innovazione permette deve imparare ad essere gestito, nella sua componente umana, che da sempre cresce anche nell’attesa e nel vuoto.
Ovviamente questo va ricompreso, nella dimensione organizzativa, e anche legato al valore che deve avere l’incontro con ciò che non è “come nella rete, senza soluzione di continuità, infinito e infinitamente disponibile”.
Perchè questo è un mitologismo che se non viene compreso rischia di essere schiaccante.
Triage QUI
Matrice di Eisenhower QUI
(grazie ad Alessandro Donadio per alcuni spunti sulla funzione delle dimensioni organizzative e sulla dimensione umanistica nelle organizzazioni)
Post apparso su Facebook 11/9/2016