Cit “Quando i bambini giocano alla guerra esprimono simbolicamente la rabbia e l’aggressività che non riescono a controllare.
IL GIOCO DELLA GUERRA E’ UN BUON MODO PER TROVARE LA PACE DENTRO DI SE”
Questa frase arriva da facebook, e da una pagina di persone che si occupano di pedagogia. Ma sarà che ciò che arriva dai teatri di guerra (Siria e Palestina) e il pensiero tormentoso relativo a quello che vivono i quei bambini che mi rende questa frase tremenda. Inavvertitamente e inconsapevolmente e innocentemente tremenda.
Anche perché nei commenti di vari genitori che seguono la pagina vi era espressa la fatica e il fastidio di essere giudicati male perché lasciano i figli giocare a questo gioco, e la richiesta più o meno diretta di rassicurazioni sul tipo di gioco. Insomma cercavano la conferma sul fatto che fosse un gioco che faceva bene o almeno non faceva male. Insomma se un gioco permette di esprimere l’aggressività che male può fare?
La domanda è mal posta. l’affermazione è mal posta.
Un domanda potrebbe essere questa: giocare alla guerra è proprio l’unico modo di lasciare uscire alcune emozioni, viste come non controllabili? Trovare la pace, in se, si può veicolare solo attraverso un gioco che ritualizza la morte di un altro?
Esiste un altro modo per farlo?
A me pare che noi si debba interrogare la nostra stessa cultura, quando veicola questo insegnamento alla guerra e lo legittima, (e la costituzione italiana, in un suo articolo, ribadisce il ripudio della guerra); che valore educativo hanno queste motivazioni? Come mettiamo in dubbio un substrato culturale che “legittima” la guerra, un substrato che non sfiora la nostra coscienza, e lo rande necessario al nostro stare bene e star in pace.
In questo pensiero citato non solo mettiamo due emozioni nel novero delle emozioni negative (rabbia e aggressività) ma trasformiamo l’aggressivita’, con il suo significato etimologico adgredior – vado verso, in un timoroso vissuto di attacco e azione o sentimento rabbioso, peraltro non controllabile, se non giocandolo in termini di “guerra”? Ovvero in termini di attacco e distruzione dell’altro, dacché quel simbolicamente non ci esime dal sapere che la guerra è attacco e distruzione dell’altro, la sua morte, che solo questa diventa da misura dello stare bene.
E’ questo che vogliamo insegnare ai bambini? Eppure non esiste solo un modo di esprimere la rabbia, e di esplorare i suoi precursori. Esistono anche altre culture meglio orientate alla pace che educano alla gestione di emozioni che rischiano di diventare “violenza”. Il nostro bagno culturale ci dovrebbe indurre a ben altre domande, come ci insegnano lo stare bene in noi stessi, come lo trasmettiamo ai bimbmi, quale costo deve poter avere la pace in noi stessi?
Nei giochi psicomotori che ho fatto sia in ambito di formazione personale, che come psicomotricista con i bambini, so di aver potuto giocare la dimensione aggressiva senza che fosse esitata in un gioco di guerra, ma usando la dimensione ludica che da sola e davvero simbolicamente poteva legittimare la sua natura di potente azione/emozione ma trasformandola in esito vitale e non mortifero, in giochi che non evocassero la morte dell’altro, ma l’incontro vitale con l’altro. Non la sua distruzione ma la trasformazione di un atto aggressivo in altro, talvolta persino in un fare insieme che non generasse distruzione.
Abitiamo in una cultura che rigetta nella carta (costituzionale) la guerra e ci consentiamo di non interrogarci su come accada, dal punto di vista pedagogico ed educativo, che il giocare alla guerra divenga poi “adatto” a tirare fuori emozioni che altrimenti si “bloccherebbero” nel bambino. Ci teniamo questa certezza senza discuterla?
Io credo che questo scarto vada pensato e corretto, e che il nostro sguardo sulle emozioni dei bimbi e sulla modalità di dargli forma attraverso il gioco debbano essere oggetto di attenzione.
Va da se che non sarà un bimbo che gioca alla guerra a creare tutti disastri che la guerra genera al mondo, ma è altrettanto significativo che rigettare la guerra come principio costituzionale richiede una educazione alla pace che passi anche attraverso queste domande di senso.
Altrimenti insegneremmo solo incoerenza, disattenzione, giustificazione all’attacco simbolico all’altro per veicolare azioni/emozioni di tipo aggressivo.
E non è poca cosa.