Auspici e disabilità. (rivoluzioni)

Nel 1989 lavoravo in una grande Ipab che ospitava circa 1000 disabili, si diceva handicappati, che vivevano lì, tutti o quasi in regime di residenzialità. La loro casa era rappresentata dai grandi reparti e la vita era quella che si poteva svolgere di una istituzione totale. Nel 1995 si cominciava a parlare e sperimentare – in quel contesto – per alcuni ospiti la vita nelle prime case alloggio; una vita non circondata da muri, vissuta in una  casa, finalmente, vera.

Gli altri, che vivevano nei reparti, ogni tanto li portavamo fuori, in giro per il paese; noi operatori con le nostre belle divise bianche e loro con quei vestiti approssimativi, che la lavanderia restituiva sgualciti e intristiti.

Nel 2003 lavoravo in un centro diurno disabili e l’integrazione era un discorso portato avanti con una certa forza. Giravamo tra i negozi, uscivamo al mercato, ma eravamo ancora preda della sensazione di essere “noi educatori”, rivoluzionari che sfidavano gli occhi della gente con le carrozzine, e le psicosi portate in giro; come a dire con sfida e fierezza: ci sono, ci siamo, guardateci bene e noi siamo insieme.

Adesso coordino un centro diurno disabili.

Ieri sera al Luna Rossa Summer Club, ci siamo andati in trenta.

Matteo era bellissimo, in jeans e camicia blu, felice perché era il locale era stracolmo di belle ragazze, e la 18 enne Benedetta con un abito verde, leggero e le scarpe con il tacco (cinque dice lei) brillava di luce propria, felice perché non credeva che sarebbe mai andata in discoteca.

Altri hanno ballato mescolati agli altri clienti.

Guardavo la nostra tavolata, frizzante e leggera come quella di un gruppo di vecchi amici, o conoscenti; ci ho visti capaci di mescolare chiacchiere brillanti con le bibite fresche e le trofie al pesto, le risate con  prese in giro, e con qualche conversazione più intima tra due più affini. La nostra coppia storica è riuscita a guadagnarsi un tavolo solo per loro, e una cena a lume di candela.

In una discoteca non mancano mai comitive piuttosto folkloristiche, ecco noi eravamo una di quelle meno esagerate o strane.

Nessuno sguardo strano, o di compatimento, nessuna frattura tra un noi e un loro, tra i non disabili e i disabili.

I ragazzi hanno guardato le belle ragazze, e le ragazze i ragazzi di bell’aspetto, qualcuno ha preferito concentrarsi sul cibo, o cantare sottovoce le canzoni che conosceva, tutti immersi nella luce violetta che colorava la tavolata. Abbiamo ballato. e poi tutti a casa.

Un venerdì sera estivo, torrido, leggero, bello, normale.

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C’è una parola per definire questo momento: si chiama inclusione.

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