Attorno a quest’argomento volevo scriverne da un po’, ma è solo nel tempo generoso delle ferie, che ci consente di fermarc,i che si può tentare di scrivere di un argomento delicato, tentando di non uscire dal territorio di rispetto, delle fatiche altrui.
Lavoro ormai da quasi tre anni, in modo prevalente, quotidiano e continuativo, con le persone con disabilità come coordinatrice di un servizio diurno, anzi mi correggo … lavoriamo, con la mia equipe educativa, assistenziale, riabilitativa con le persone disabili. E con le loro famiglie.
Forse questa è una della parti più delicate e complesse del lavoro: l’incontro avviene talvolta un terreno spesso sconnesso, dove ci si trova a muoversi tra confini labili e percezioni amplificate, accanto a paure e fatiche che arrivano da una vita spesa insieme, come genitori e figli, ed in cui i secondi che non saranno mai autonomi. Sentiamo storie di familiari obbligati a scoprire la propria capacità di inventarsi la vita (e la quotidianità) in sottrazione, e a vivere tra scelte non scelte.
Molti genitori, spesso ormai quasi anziani, hanno dovuto letteralmente inventarsi l’incontro con la disabilità del proprio figlio, in un momento storico in cui i servizi non sapevano ancora e non riuscivano a garantire un accompagnamento delicato alla notizia della disabilità del neonato o del bambino. Per alcuni è stato invece necessario diventare, educatori, terapisti, insegnanti per tamponare le falle di un sistema che si stava avviando. Altri sono stati paladini combattivi e rivendicativi per chi non aveva parole per parlare, meno diritti, meno possibilità, meno visibilità, in un modo che allora – ancor meno di oggi – era fatto per chi aveva una disabilità. Altri hanno imparato una convivenza precaria e stentata con “il problema”.
Per alcuni la sfiducia nei servizi, pure usufruendone per necessità, è diventato solo un altro tassello della quotidianità, una fatica aggiunta alla fatica. E gli operatori solo rimaste facce, aggiunte a tante altre facce, (che forse non sanno o non capiscono) a cui raccontare la propria storia, anno dopo anno, pensando che forse nessuno avrebbe saputo comprendere sino in fondo la fatica e la sfida di crescere e accudire un figlio con disabilità; che mai avrebbe avuto accesso nemmeno ad una parzialità di vita “normale”, autonoma, libera, scelta…
“ti affido mio figlio e non mi fido”
Non è facile controbattere a questo affidamento, appoggiato con forza, quasi radicato, sulle basi della sfiducia.
L’operatore, a volte chiamato genericamente l’assistente, non appare nel suo ruolo professionale (educatore/oss/terapista), e non viene visto nemmeno come portatore di un sapere/una esperienza/un pensiero che potrebbe essere di aiuto. In fondo – ed è vero – nessuno conosce la vera fatica che ogni famiglia fa. La fatica può essere raccontata, confidata, talvolta “sbattuta in faccia”, o negata ma mai vissuta in prima persona. Alcune angosce o ansie per il futuro sono e saranno solo del genitore.
E allora l’offerta educativa/assistenziale non può essere posta sullo stesso piano; va costruita con l’attenzione delicata, e umile, che viene dall’ammettere di non conoscere davvero l’altrui intimità familiare, e nemmeno la fatica che costa.
L’offerta tecnica si può creare, usando la conoscenza quotidiana delle persone, in qualità di utenti del servizio, che come operatori vediamo agire/vivere in un mondo (diverso da quello familiare) fatto di regole e di incontri sempre uguali e ma anche sempre mutevoli, fatto di confronti con le abitudini degli altri utenti, di tempistiche e modalità organizzative che cambiano, di progettazioni e di laboratori che talvolta scardinano i rischi della troppa abitudine, o altre volte danno certezza e stabilità. Si possono aiutare i familiari a individuare il “disegno” e il progetto che sostiene le giornate, l’organizzazione, alcune scelte, e i pensieri che l’equipe si pone attorno ad ogni persona, ai suoi bisogni, nel suo essere in sinergia con altri, con i cambiamenti, con un vivere in modo collettivo.
Insomma la vita di un servizio educativo dispone molteplici cambiamenti, siano essi i mutamenti nell’equipe (es maternità, pensionamenti, sostituzioni) che creano nuovi approcci e stili di lavoro, oppure l’introduzione di nuove azioni/prassi educative, siano esse l’inserimento di una modulistica nuova, o i suggerimenti della figura che supervisiona il lavoro di equipe, e ogni mutamento si riverbera nel azioni quotidiane e nel modo di incontrare le famiglie. Questo sposta il piano dell’incontro, lo allontana da quel tema della sfiducia, ma lo mette su quello dello scambio di saperi, o meglio di azioni concretamente e quotidianamente condivisibili, e che il luogo che ospita i propri figli non è basato sulla casualità, ma piuttosto (volendo giocare con le parole) sulla causalità.
“noi al Centro facciamo questo, e capiamo insieme come si può fare anche a casa una azione simile o utile/sinergica/complementare”.
Ad esempio, di recente, l’assunzione di nuovi modelli PEI ci hanno obbligato a:
- fare nuove domande alle famiglie, scantonando ogni risposta scontata, obbligandoci insieme ad uscire dalla solita routine annuale di affermazioni e letture, obbligandoci ad un incontro nuovo, che andava costruito rinnovando non solo le domande ma anche il patto educativo.
- semplificare gli obiettivi pensandoli in modo nuovo e di fatto rendendoli più fruibili anche per le famiglie – che hanno potuto capire cosa facevamo come equipe e cosa potevano fare anche loro a casa, traducendo in azioni nuove o anche solo più pensate.
- e scoprirci reciprocamente più interessanti, e interessati a scoprire cosa si poteva concretamente fare insieme. In qualche caso si vedono i primi risultati: gli utenti che raggiungono gli obiettivi pensati per loro, con le loro famiglie. 🙂