Bastasse il pannolino. Tra paternità, pratiche di cura, e questioni di genere.

Rispetto alle pratiche di cura uno dei temi del momento è la valorizzazione di quelle dedicate ai figli sin da piccolissimi, dal padre.padre-e-figlio

I padri accolgono, con il corpo, con le cure fisiche, e con nuove gestualità i figli sin dalla nascita, a volte già dal momento del parto; e imparano con le donne e dalle donne alcuni significati della cura.

Ma sono pronti a fare lo stesso processo che le donne conoscono bene, e soprattutto sono pronti a portare la riflessione su un piano più sottile e fine?

Il corpo delle donne conosce “la gloria della maternità”, la pienezza della gravidanza, e a volte la primitiva onnipotenza che ne deriva; avere fatto un figlio offre una sensazione di potenza straordinaria, ma lo stesso corpo scopre anche il vuoto dell’assenza del figlio nel ventre, e la furia degli ormoni, che talvolta si rendono complici di smottamenti emotivi e di possibili risvolti depressivi, con un vissuto altalenante che va “dalle stelle alle stalle”.

La generatività non implica solo l’atto del partorire ma quello di convivere con un corpo che a volte armonicamente si adatta alla gravidanza e a volte gli si oppone.

E il figlio stesso racconta di una forte interazione tra due corpi, che si incontrano, si cercano un dialogo tonico, emotivo, affettivo che si lega all’atto di dare il cibo, e consolare, cullare, insegnare e imparare, richiamando sempre a due azioni contemporanee, fatte di un sentirsi e di un sentire costanti ma finalizzati alla cura dell’altro.

Insomma la generatività al femminile, se nominata e fatta come pratica di autocoscienza, permette e ha permesso, a molte, di stare in equilibrio tra orgoglio e profonda incertezza, e quindi di trovare il proprio passo nel mondo, non solo come madri, ma come donne e soggetti sociali, culturali, politici, etici.

Aggiungo un’altra riflessione: la pratica femminista dell’autocoscienza ha aiutato le donne nell’imparare le forme del dirsi attorno al corpo, al suo essere sano, malato, attivo, presente alle relazioni, emozioni, la cura e il proprio ruolo sociale e a farne un atto condiviso, sociale, politico e culturale. C’è stato un momento storico in cui tantissime donne vi si sono dedicate, cominciando a trovare grazie a questa nuova consapevolezza, nuovi spazi lavorativi, sociali, politici, professionali, familiari, quotidiani, economici e visibili a tutti.Collettivo-semiotica-e-psicanalisi

In questo l’essere madri ha potuto diventare l’opzione, che apriva e apre alla gamma del possibile. Essere madri, non esserlo, essere generative, non esserlo, saper costruire pratiche di cura, o scegliere professioni che portano altrove nel mondo. Con la capacità di essere molteplici, complesse, attive e creative. Nominando il proprio genere, come una declinazione del mondo che offre il proprio sguardo. Questo si è tradotto attraverso cambiamenti storici e politici e anche attraverso il pensiero femminista, in nuove leggi, in ulteriori opportunità di presenza sociale, lavorativa e culturale.

Siamo sicure e sicuri poterci sedere sugli allori è dire che tutto è fatto?

E siamo certi che questo mondo di stare al mondo, pensato, costruito e praticato sia sufficiente. E che tutto questo travalichi immediatamente nella concezione del mondo che arriva da una cultura millenaria che limitava i ruoli femminili alla maternità, e alla cura di casa e dei corpi? Che sia già diventato cultura, e che permei così definitamente i contesti formativi?

Perché questa è la mia domanda.

L’educazione deve guardare a questi aspetti? Deve saper immergersi e comprendere i contesti culturali in cui è calata, per astrarne novità o introdurre nuovi sguardi?

L’educazione può evitare il confronto con un processo di autocoscienza del paterno e del maschile, che non sappiamo ancora se è iniziato, in maniera corale, condivisa e fondata sul confronto, in sedi pubbliche e culturali?

Nel nuovo modo di incarnare la paternità, di cui dicevo sopra, gli uomini stanno trovando il tempo e il modo di approfondire lo sguardo su di sé, sul proprio essere uomini, maschi e compagni in modo nuovo, con lo stesso stile di pensiero autoriflessivo, condiviso, e creativo, utilizzato dalle donne?

Perché per me è importante che un uomo, non si limiti a saper cambiare il pannolino, o a sostituire la compagna nella pratiche di cura verso il proprio/a figlio/a, ma sappia che possa percorrere una strada di pensiero importante.

Passando dalla “gloria della paternità” all’umiltà della propria costante fallibilità, perché su questo piano può incontrare la donna che vive con lui, oltre la maternità, oltre la sessualità, in un percorso più profondo di incontro tra femminili e maschili. E poi percorrere un latro viaggio nel proprio maschile fino ad aver voglia di modificarne i confini profondi, entro di se e poi nel mondo.

Leggo spesso racconti, on line, uomini che presentano la novità della propria paternità, delle tenerezze incontrate, delle fatiche, e spesso per alcuni sembra una sorta di autocelebrazione della propria potenza di cura, che suona come un “anch’io son capace come le donne di aver cura di un figlio”.

Ecco questo è il primo passaggio, utile ma non risolutivo, perché la strada per cambiare la cultura del paterno e del maschile, è altrove, è profonda ed è lunga, e richiede anche il confronto autentico anche con gli altri maschili. Non sono un paio di post, ben scritti, on line per dire che si cambia il pannolino e si lavano i piatti, per attivare un processo davvero nuovo. Appunto il cambio del pannolino non basta, e la fase dell’ubrys è solo l’inizio.

Bisogna fidarsi del percorso che hanno fatto le donne, nel tempo, che ne hanno fatto cultura di genere e pratiche formative orizzontali.

Da maschile plurale…

“In queste serate ognuno si dedica al racconto di sé, agli altri e all’ascoltarli a sua volta. Argomenti sui quali ci siamo confrontati sono ad esempio il rapporto con il padre e la paternità, il rapporto con la madre, i ruoli tradizionali dell’uomo nella società e quanto le aspettative che ne derivano influenzano il nostro modo di essere maschi, la competizione tra uomini, la sessualità, l’omosessualità, lo sguardo e il desiderio, il nostro rapporto con le donne e tanti altri. Il comune denominatore è che lavoriamo su noi stessi, come singoli e come gruppo, per cercare, a vari livelli, la nostra parzialità, autenticità e originalità di uomini, senza pregiudizi e senza parlare di massimi sistemi.

Abbiamo scoperto che il confronto tra maschi è una straordinaria fonte di arricchimento, quando c’è rispetto per i percorsi personali e le opinioni altrui, e altrettanta fiducia e voglia di conoscere: alcune regole sui tempi e le modalità ci aiutano a gestire gli interventi, in modo da non concedere spazio a giudizi o a tentativi di imporre le proprie idee. La pluralità dei racconti e delle esperienze crediamo sia la nostra forza e la nostra ricchezza. A dare una direzione al nostro lavoro, in costante mutamento, sono le intuizioni dei singoli, che vengono ascoltate ed eventualmente raccolte e valorizzate.”

Da queste esperienze al maschile nascono palestre di nuova consapevolezza sociale e culturale, consultori dedicati che aiutano gli uomini a guardare in faccia le proprie capacità di essere violenti, o prevaricatori, e a porvi un limite, guardando in faccia i limiti di una lunga cultura maschile che non ha fatto pace tra fragilità e potenza, tra orgoglio e umiltà, tra cura e azione nel mondo, che ha lasciato prevalere uno sguardo ipersemplificato di se stessi come uomini.

Questo fa ben sperare per il valore che attribuiremo, come società e ruoli educativi,Foto-campagna-su-Cultweek alla paternità di questi uomini in cambiamento, che guarderanno dentro a se e insegneranno a figlie e figli un nuovo incontro educativo.

Rilancio questo post alla amica e collega pedagogista clinica Vania Rigoni, che mi ha ingaggiato con vari domande sulle questioni di genere in educazione.

Vediamo che ne esce?

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