In attesa del blogging day del 27 febbraio ecco due o tre pensieri sull’incontro tra educazione e scuola.
Sono a tornata a scuola, in vari momenti.
Una delle prime entrate è stata nel 1996 come psicomotricità del servizio in Neuropsichiatria infantile, accolta con grandi onori, e l’aura dell’esperta.
Come se l’esperto della neuropsichiatria avesse in se una scienza infusa, di qualità superiore, tale da illuminare e sciogliere ogni dubbio. La scuola si aspettava da me, da noi, una parola che avrebbe spiegato, definito, aiutato nell’incontro con i bimbi che noi (e loro) avevamo in carico.
L’aura medica e sanitaria sembrava dotarci di un quid in più, mentre avrebbe dovuto essere relativizzato e sciolto in un più realistico lavoro di rete.
Lavorare sulla diagnosi, sulla terapia, sulla riabilitazione diventa davvero significativo se la scena si allarga sino a cogliere l’interezza del bambino. Nella sua dinamica esistenziale, nella fatica famigliare di ri-tracciare la propria rotta alla luce della disabilita’, della sindrome, della psicosi, del ritardo cognitivo o motorio, etc.
Il significato dell’aver cura/curare/educare/crescere si coglie se ogni partner, collocato sul quella scena, accetta di esser esperto di una sola parte, senza mai smettere di aver bisogno delle parole e degli sguardi altrui.
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Il secondo rientro a scuola è stato come educatrice del servizio assistenza domiciliare minori.
Un incontro che si colloca meglio nella scena educativa.
Nel regno incontrastato del sapere forte (la scuola) l’incontro diventava complicato, perché bisognava andare a spiegare i contenuti educativi. A partire dal ruolo: si andava a spiegare che non eravamo le ragazze di compiti, ma educatori professionali, e compreso questo bisognava mostrare che il potere “magico” di risolvere i problemi di un minore con disagio socio familiare culturale, non era nelle nostre corde. Non avremmo risolto i problemi scolastici, e non avremmo, nemmeno, potuto riempire buchi familiari.
Ma avremmo potuto fare qualcosa di diverso, qualcosa che era difficile comprendere e forse persino spiegare.
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Un altro incontro professionale con la scuola è stato quello come coordinatrice di comunità alloggio minori.
Un incontro faticoso tra due poteri forti: scuola e comunità. Loro con il mandato di creare un luogo possibile dove imparare, e noi con il mandato in delega (del Tribunale dei Minorenni) di permettere ad un minore problematico di accedere e trarre beneficio dal contesto scuola. Così nasceva un contenzioso, tra la scuola che cercava di espellere il corpo estraneo di un minore destabilizzante, e la comunità cercava di ribadire la necessità/diritto di quel minore di imparare a stare nella scuola, con i coetanei, per imparare a convivere con delle regole, in una scuola che sapesse essere autorevole e accogliente.
Ma ancora questi incontri erano ancora molto esterni alla scuola e in quanto tale davvero estemporanei.
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Finalmente … sono tornata scuola a 44 anni, con un buon curriculum professionale alle spalle, come educatrice del servizio di assistenza scolstica.
Eppure il mio sapere in quell’ incontro con quella scuola non valeva (ancora) assolutamente niente. Ma lo stesso valeva per i miei colleghi dell’educativa scolastica, e simile sorte toccava la nostra coordinatrice.
Bizzarramente da adulta, rientravo nella scuola come se non sapessi niente, accanto a “miei compagni” – in realtà professionisti dell’educazione – in un incontro in cui esisteva un tentativo di rimetterci in un ruolo asimmetrico, quasi fossimo noi discenti.
Noi e la scuola, in una una asimmetria di ruoli bizzarra.
Io sono la scuola e so, e tu NO.
Perciò l’ingresso è stato tutt’altro che trionfale, ma necessariamente e decisamente sottotono.
E’ stato proprio “tornando a scuola” che la nostra equipe, nei educatori professionali, ha e abbiamo dovuto imparare e capire come esibire una professionalità che c’era, ma sembrava essere invisibile alla scuola. Eravamo quelli che tamponavano i buchi dove la copertura oraria degli insegnanti di sostegno non bastavano o impedivano gli alunni più problematici impedissero lo svolgimento delle elezioni.
In quell’ingresso a scuola doveva essere tutto costruito. Ci sono voluti un paio di anni perché la professionalità diventasse un’evidente risorsa, che nei fatti mostrasse come era capace di incastrarsi perfettamente con quelle presenti della scuola.
Insomma nel primo incontro con l’istituzione scuola, è stata vincente proprio questa apparente inconsistenza di ruolo (non vogliatemene ma è quello che si percepiva).
Sottotraccia o sottocoperta restava un solido di lavoro per obiettivi, la conoscenza della varie tipologie di utenza, il lavoro sui territori costruito tessendo tele e snodi di significati, ora con i servizi (Npi, spazi compiti, CaG, servizi sociali) ora con le famiglie nei quartieri, negli oratori. Nei mille incontri lontani dai setting istituzionali.
Cosa avevamo imparato nei territori in cambio di un setting evanescente? Spesso a parlare con maggior leggerezza i genitori (e poi lo abbiamo usato fuori fuori dal cancello di scuola) per passare dopo poco a parlare di contenuti con i colleghi dei CAG, o con i medici delle NPI, e infine a costruire una conoscenza trasversale fatta di saperi altrui intrecciati al nostro specifico.
Alla fine l’alunno, l’utente della neuropsichiatria, il caso sociale dal servizio sociale, per le sue problematiche familiari, o per il suo inserimento nel territorio, nello snodo educativo era un bambino a tutto tondo.
Con questo bagaglio si arrivava a scuola, in modo fluido e poco appariscente, per lavorare e tesare attorno al bambino una nuova narrazioni di saperi, sulla sua patologia, la sua storia, le sue virtù lontano dalla scuola, riempiendo “il caso” di nuovi sguardi offerti ai docenti.
M. è un ragazzino di terza media con un grave ritardo cognitivo, che vincola anche la comunicazione verbale, le sue capacità attentive sono ridotte, così come il tempo di concentrazione. la sua passione sono i supereroi in particolare Batman e Spiderman di cui conosce evidentemente i simboli principali, e che disegna ripetitivamente, ma mostrando inaspettate capacità rappresentative, qualche segno è sufficiente a fare apparire sul foglio l’erode: la ragnatela o le ali di pipistrello. Oltre all’attività didattica semplificata (orientamento nello spazio tempo scolastico, dei ritmi stagionali), brevi esercizi di scrittura, il tempo è dedicato al disegno e alla visione dei film, al tentativo di usare il canale cinematografico per poter rappresentare anche altre parti della realtà.
Con M. e l’insegnante di sostegno e quello di arte organizziamo una mostra “di Mostri”, in cui le opere migliori di M. vengono esposte nei corridoi principale della scuola, visitante dai compagni, che nel ruolo di “critici d’arte”, trovano nessi tra l’arte primitiva e l’arte moderna e le opere del compagno, e i loro commenti – trascritti – vengono utilizzati come testo che accompagna il percorso della mostra. I suoi disegni diventano un percorso di significato e di pensiero tra l’opera grafica e la sua lettura culturale, che attraversa la scuola, e ciò che attrae lo sguardo non è la disabilità ma la connessione che si è creata.