INTRO
“Non posso dimenticare l’espressione sorpresa di una dirigente di servizi sociali di fronte alle mie affermazioni riguardanti il futuro di questi figli e il desiderio dei genitori di cercare e scegliere il contesto per loro più adeguato. Non è facile trovare un posto, figuriamoci poi scegliere … sarebbe un lusso! La signora in questione mi parlava come professionista del settore ignorando il mio duplice abito, anche di genitore coinvolto direttamente nella questione. Avrei potuto svelarlo sottolineandole che aveva perso una bella occasione per tacere e per connettere lingua e cervello ma, a volte, è meglio andare oltre.
Gli operatori parlano di disabili, di strutture, di fondi, noi parliamo dei nostri figli, della loro qualità di vita e questo a volte traccia una linea di demarcazione insuperabile.”
Fonte http://igorsalomone.net/2013/07/29/teniamoci-per-mano/
Non avrebbe senso utilizzare questo post per dare una risposta a chi scrive (si tratta anche di una collega con cui lavoro), ma spesso i suoi post mi sollecitano la ricerca di risposte possibili, smuovendo inquietudini nella mia parte genitoriale, e in quella di operatore; risposte che, è inutile dire, sembrano non arrivare mai e non mi soddisfano affatto.
Allora provo a pensare che quelle domande siano assimilabili a domande/inquietudini dei genitori che incontro al lavoro, e alla “demarcazione insormontabile” che divide operatori e genitori. Da anni sono alla ricerca di quella quadratura del cerchio che permetta di passare dal ruolo di antagonisti a quella di plessi di una rete, di sodali, di costruttori di reti di significati condivisi e condivisibili.
Nonostante.
Nonostante le differenze, le resistenze, i differenti oggetti intenzionali.
E’ una ricerca che nasce perché conosco le passioni di chi educa, di chi abita i servizi, l’affetto per gli utenti, e la rabbia per i vincoli che il sistema ( fatto di vari sistemi che interagiscono sanità/amministrazioni/cooperative/famiglie etc) mette in azione per confinare il lavoro degli educatori, per negare le possibilità e le prospettive di accompagnamento, verso altro/altrove, di chi vive una vita con disabilità.
Avrei detto alla collega qualcosa di diverso dalla dirigente, quando ha detto che “la scelta è un lusso”? No. Non credo, avrei detto a denti stretti la stessa cosa, avrei aggiunto “purtroppo”, avrei ancora detto che si esistono posti dove scegliere non è un lusso, ma una possibilità, e posti dove nemmeno c’è scelta. Appunto.
Nel transito lavorativo tra due regioni (Lombardia e Piemonte) che non sono nella retroguardia dei servizi diretti a persone con disabilità, mi ritrovo a pensare comunque che le possibilità sono un lusso.
E’ un “lusso” vivere in Lombardia, è un “lusso” vivere a Milano o in una grande città, mentre è sicuramente una “fregatura” vivere in un paese piccolo, o dove la cooperativa di turno, che appalta i servizi dei comuni ha un livello di sensibilità culturale alla disabilità medio basso o meramente assistenziale, o dove i tagli consentono la vita e stipendio solo alle mega cooperative, lasciando dietro di se un cimitero di ottimi professionisti senza lavoro. Ci sono povertà e lussi, in una Italia dove scuola, cultura, welfare sopravvivono a macchia di leopardo, e i lussi paradossalmente sono una qualità media e mediocre, che spesso lima e delude gli operatori stessi.
Dove sono gli alloggi per l’autonomia protetta? E le vacanze pensate, non solo per il sollievo dei genitori, ma per il “piacere” dei figli, finalmente accompagnati a esplorare altri luoghi lontani dalla quotidianità della scuola, dei CDD o della famiglia, ognuno per le possibilità. Dove si parla di diritto alla sessualità e all’affettività?
Esistono? Si, so di esperienze di questo genere a Milano, Pavia, o sulla costiera Romagnola (vacanze), lo so perché esiste il web che diventa una fonte di scoperta di un mondo inesausto di operatori, famiglie, reti, associazioni, cooperative che tentano non tanto di “presidiare il forte” ma di connettersi, e fare connessioni-pensieri-progetti, di partecipare, di scambiare link e possibilità.
Esistono perché …
“facciamo rete”
impariamo e raccontiamo,
perché la rete di cui parliamo offre lavoro e sostegno alle vite degli operatori,
perché c’è un continuum tra le vite di chi professionalmente si occupa dei figli di quei genitori,
perché creiamo/cerchiamo un dialogo tra queste diverse istanze, al centro delle quali dovrebbe restare quella, che una volta si chiamava “centralità della persona” o perché al centro dell’esperienza educativa e di cura deve stare lo “stay human”,
perché la traccia di demarcazione necessariamente definisce i ruoli, ma non cancella la scena collettiva dei servizi, degli incontri, e pure il luogo sociale, culturale, politico, educativo, assistenziale, pedagogico, sociologico, psicologico, antropologico, scientifico (e altro ancora) in cui svolgiamo tutte le nostre vite.
Quello che immagino possa essere il futuro per servizio in cui opero, non è quello dell’evanescenza programmata dalla politica e dalla crisi, ma quello di un luogo dinamico in cui sia possibile dire tutte le verità scomode (o meglio i pensieri scomodi), tenuti insieme in una rete di significati collettivi. In cui la solitudine di alcune famiglie, la sensazione di essere sulla linea di frontiera sia condivisa da chi per (e in una) una simile linea di confine combatte.
Stay human e buona estate