Lettura vacanziera e inaspettatamente piacevole e leggera. Da cui sorge un dubbio, uno fra molti.
Adolescenti, quelli che incrocio ultimamente per via del ruolo ora genitoriale ora professionale che rivesto.
Dai loro racconti relativi alle quotidiane esperienze scolastiche sembra non mostrarsi mai il dubbio che i loro docenti siano consapevoli del lavoro che fanno, o che le scelte operate nel loro interagire nella loro pratica di insegnamento con un gruppo di giovani, non siano mai dettate da un pensiero, un progetto, una intenzionalità. Così questi ragazzi raccontano di professori un pò freak che usano un linguaggio strano, capace di meticciarsi e snodarsi tra sgrammaticature e e un italiano obsoleto, colto ed incredibilmente corretto (ma ahiloro del tutto incompreso e sconosciuto ai ragazzi)
Mi chiedo se questo non sia che “un errore” di valutazione, legato ad una visione giovane, che non pensa ancora totalmente attraverso metalivelli, non ha ancora pienamente imparato a pensare il pensiero, o a riflettere sui i processi di apprendimento (e di insegnamento), che incontra.
Oppure se sia una funzione che la scuola non riesce ancora pienamente a tradurre, non mostrandosi altro che come luogo che insegna un sapere immobile, invece che come uno spazio vivo che pensa a come ( non solo a “cosa” ) insegna, che si espone alla critica per insegnare, che gioca ad insegnare nell’imprevedibilità .
Fatto sta che ogni anomalia del modo di insegnare vien colta, e sbeffeggiata, come stramberia o al peggio come sintomo di grave ignoranza; e mai come intenzione, interruzione, frattura, scarto, variazione da cui imparare.