di Monica Massola
Non è facile gestire una formazione che prevede una pluralità di approcci a mediazione corporea (psicomotricità, danzaterapia, arte marziale), perchè questo apre ad una moltiplicazioni di letture e di significati di cui il corpo è portatore. Ma prima ancora di trattare questa “complicazione”, va fatta una riflessione sui fondamentali dell’educazione a mediazione corporea.
Che non si rivela mai facile perchè mettere in gioco il corpo è sempre più difficile di quanto appaia a primo avviso. Anche per chi si occupa di educazione di corpi (anche quando pensa di non dovere educare anche al corpo e nel corpo), anche per chi si occupa di formazione.
Il corpo è sempre in gioco, che lo si nomini o meno ed è sempre portatore di una infinità di aporie. Il corpo apre a temi infiniti, ed è destinato a non chiuderli, a non indagarli e confondersi in quella pluralità. Il corpo è soggetto di indagine, anche mentre si rende oggetto dell’indagine stessa; il corpo (io corpo) diventa una gestalt che si autoosserva ed in più intreccia interazioni simultanee con l’ambiente, con il tempo, lo spazio, gli oggetti e l’Altro.
Ecco alcuni appunti (appunto spuntati e grezzi) che preludono ad una giornata formativa.
I corpi piacciono se gia’ ben educati, e se non sono i nostri corpi a dover essere educati, anche della possibilità di doverci educare, noi stessi, nell’essere corpo.
Come se fosse davvero possibile che il corpo di chi educa sia già educato, e non richiedesse mai altro.
Si direbbe che sia la fatica del corpo ad avere bisogno di parola, esprimendo una fatica nel legittimare i corpi (il proprio o l’altrui) nella loro accezione estensiva di totalità.
Le resistenze, che esprime chi è inserito nel percorso formativo, sembrano legate alla offerta primaria insita nel dispositivo, quella di farsi educare all’incontro con il proprio corpo, per entrare nella prospettiva del corpo altri, da incontrare.
Il percorso formativo ha indicato che con facilità tutti si sono lasciati condurre nella dimensione corporea, ma quasi in maniera scissa, come se il fare non riverberasse in ogni istante nel corpo, come se non non lasciasse tracce o segni, o come se fosse un “fare finta” del tutto privo di connessione con la realta’.
Come se i (loro/nostri) corpi non fossero in scena, come se non fossero mai stati chiamati ad esserlo. Come se i vari registri (psicomotorio, danza terapia, arte marziale) non avessero mai davvero inciso.
Ritornare al corpo, passando dalla parola. (dal corpo esplorato alla narrazione e l’incontro tra corpi e parola)
Per fare questo passaggio il nostro corpo, allenato a pensare per parola e non per azioni, va rilegittimato con la parola; per quanto sembri un paradosso.
Ma la legittimazione che va resa a tutto quanto a partire dal bisogno della parola di rassicurare il pensiero, sulla minaccia potenziale del corpo, che sta nel gesto, in ogni gesto (fatto o subito), a prescindere, perchè è fenomenologicamente connesso al corpo. E’ la fatica, del corpo ad avere bisogno di parola, nel ri-vedersi. Perchè la nostra formazione culturale si dipana ogni giorno tra parole, quasi dimentiche del corpo.
Appare una sensazione: quella per cui sembra che lavorare, in ambito educativo, come corpo o insieme di corpi sia faticoso; e pertanto occore ri-legittimare/legittimarsi il corpo come strumento di esplorazione pedagogica, autoriflessiva, tenendo al tempo stesso insieme la sensazione del corpo essere il che si “é”, che sono io stesso.
Alcune resistenze hanno mostrato appunto la grossa fatica che consiste nel tenere insieme il corpo soggetto/oggetto, che qualcuno ha tentato di elaborare come prevalenza della volontà sul corpo. Ma ovviamente questo non basta e non serve, perchè il corpo appunto, è soggetto ed oggetto e trascende pure comprendendola la volontà, o l’intelligenza, o la attenzione, o il respiro, o il gesto, o il movimento, o l’incontro con l’altro (oggetto/soggetto) corpo.