di Irene Auletta
Ieri sera con un gruppo di educatrici in un servizio per l’infanzia.
Oggetto dell’incontro un tema spinoso e complesso che da diversi anni incrocio nei contesti educativi e che pone al centro alcune domande importanti da cui partire per la riflessione.
Come mai i genitori fanno così fatica a rispettare le malattie del bambino?
Come è possibile che li dimettiamo con febbre alta e altri sintomi influenzali e dopo solo due giorni sono di nuovo qui al servizio?
Lo sai che ieri una mamma è venuta a prendere suo figlio di un anno e mezzo che aveva febbre alta, conati di vomito e ci ha salutato dicendoci ci vediamo fra due giorni?
Vediamo i bambini che durante il giorno stanno male e non sappiamo cosa fare perchè per alcuni genitori sembra quasi che chiedergli di tenerli a casa sia una nostra strategia per lavorare di meno.
Appunto, lo avevo anticipato, tema non facile.
Immagino già gli schieramenti di chi sfodera le spade a favore dei bambini, “poveretti e deboli in balia di genitori sempre più incoscienti” e chi, magari più timidamente, prova a prendere le parti degli adulti, ricordando la crisi economica, il rischio di perdere il lavoro, i mille impegni che non si possono rinviare e le tante difficoltà con cui oggi i genitori devono continuamente misurarsi.
Ma cosa ce ne possiamo fare di tutto questo nel nostro lavoro educativo?
Propongo di provare a guardare altrove e di cercare altre domande che ponganosi al centro i genitori, ma in modo un po’ differente.
Il problema diventa il rapporto con la cura e il significato che oggi le viene attribuito.
Prendersi cura di qualcuno è spesso impegnativo, faticoso, richiede tempo e, in caso di malattia, aggiunge la fatica della preoccupazione e della vicinanza con il dolore.
Tutte cose che oggi vanno davvero molto poco di moda.
Chi si occupa ancora di trasmettere il valore della cura e di pensarla come un atto educativo e di amore?
Dialogo importante e decisamente antico quello del rapporto tra l’amore e la fatica, la gioia e il dolore, le attese e le delusione, i tempi per sè e il tempo per l’altro.
Direi che di questo l’educazione si deve occupare e, se già lo sta facendo in tanti contesti, deve imparare sempre di più a renderlo pubblico riempiendolo di significati che accompagnino le famiglie durante la crescita dei loro figli.
Le azioni di cura dei bambini piccoli oggi rischiano di essere sostituite e schiacciate da interventi finalizzati a tenerli occupati o, come oggi si usa tanto dire, impegnati.
Tornare a occuparsi della cura, restituendole il valore pedagogico che merita, vuol dire pensare a tempi dedicati all’altro nella relazione, nel contatto tra i corpi e tra gli sguardi, nel tempo dilatato che non è più dei singoli per diventare il tempo prezioso di quell’incontro e di quella storia educativa e di amore.
Vale per i genitori e per gli operatori.
Questi ultimi però hanno la responsabilità di pensarci e di trasformare le riflessioni in azioni e gesti da insegnare e a proposito della cura, da insegnare e da imparare c’è ancora tanto, per tutti noi.
Pensavo alla cura anche nella sua accezione di cura dei luoghi destinati all’educare e all’insegnare. Qualche giorno fa nel mio blog -”casa”- personale scrivevo delle fatiche degli insegnanti di mia figlia grande, davanti ad una classe apatica di fronte alla scuola intera.
E poi guardavo con tristezza quel luogo – scuola – spoglio e spogliato, disinvestito,
un non luogo che non appartiene a nessuno, forse nemmeno più al bidello che ne ha cura.
Una bella spazzata ed un colpo di stracci inumidito e via!
Chissà cosa c’è da imparare in una scuola che si veste di bruttezza, non si infiochetta e si abbellisce.
Poi pensavo a quando ho fatto il corso per insegnanti di massaggio infantile, a come ci hanno insegnato i gesti di cura, destinati prima ancora che ai genitori e al loro bimbo, all’ambiente; reso comodo morbido caldo profumato con fiori e piccole attenzioni per i genitori (pannolini e salviette di scorta) e per i bimbi una piccola scorta di giochi morbidi e colorati. E poi ancora gentilezza e accoglienza per tutto e per ciò che portano gli altri. Ma per insegnarcelo ci hanno accolto in un luogo reso caldo, profumato, pieno di fiori, di musica sottile, per insegnare agli altri ci hanno fatto sentire accolti.
E poi ancora pensavo alle “mie” sale di psicomotricità (luoghi altrui che mi ospitano), luoghi che … quando lavoro cerco di allestire pensando a chi giungerà, e che poi riordino con un esercizio (sempre rinnovato e ancora faticoso) di umiltà.
Pensavo a come rendo disponibile lo spazio, lo modifico, ed insieme ad esso il mio corpo, perchè possa comunicare, imparare insegnando.
E poi guardo ancora alle piccole e amorose cure (e a volte alla frustrazione) che dedico a casa mia, per accogliere la mia vita e quella dei mia familiari, perchè abbia e renda senso alle nostre cose.
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Capisco bene quello dici Monica, perchè per me la cura nei luoghi della cura è una questione fondamentale e, tante volte, quando incontro luoghi spogli, sporchi e trascurati mi chiedo se le persone presenti sono consapevoli di quello che insegnano…loro malgrado. Vale lo stesso per le persone. Come possono dar valore alla cura operatori o genitori che si presentano sciatti e trascurati? Io sono cresciuta, sia come persona che come professionista, incontrando maestre delle cura e non posso stare in una relazione educativa o di amore, senza curare le persone di cui mi occupo. Di certo sono stata molto fortunata e spero sempre di riuscire a “distribuire” a chi incontro quanto ho ricevuto.
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Ricordo con infinita pace e serenità i radi momenti in cui nella mia infanzia mi svegliavo con il “febbrone” e finalmente mia mamma operaia, non potendo delegare la mia cura alla vicina di casa recuperata all’ultimo momento, decideva di non andare a lavorare.
Ricordo che di colpo tutto si fermava… potevo lasciarmi andare al vuoto del pensiero fissando imbambolata il cielo fuori dalla finestra della mia cameretta…mia madre poi in quei momenti eseguiva gesti rituali che imprimevano, sottolineando che avevo bisogno di cure, maggiore significato all’incanto.
Mi serviva a letto la colazione che in quelle condizioni di salute si trattava di un profumatissimo the caldo con biscotti invece che del solito caffelatte con pane secco… dava aria alla stanza e preparava il comodino con un candido panno bianco e profumato di lavanderia su cui disponeva un cucchiaio da minestra come abbassa lingua, affinché il medico potesse svolgere le pratiche per la visita.
Poi per tutta la giornata era lì, con me… in casa.
La sua presenza mi dava tranquillità e così mi lasciavo andare febbbricitante al dormi-veglia e nei momenti di veglia sentivo la sua presenza accudente.
Sono diventata io stessa mamma e ho compreso che mia madre nella sua incoscienza non aveva paura della malattia, o meglio ne ignorava ogni conseguenza confidando nell’illusione che sempre c’è soluzione nella medicina.
Questo ha permesso a lei di regalarmi quei momenti in cui la malattia diveniva un’occasione per ritrovarci.
Come mamma e come educatrice sento molto vicino ed importante questo argomento credo che “curare la cura” diviene un modo per dare legittimità alla malattia, al dolore e alla paura che ne conseguono. Curare la cura può significare “guarire” curando le nostre relazioni dentro alla malattia, per evitare che si ammalino di più.
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