di Monica Massola
Conciliare il paradigma della Pedagogia Interazionale con la psicomotricità è la sfida che vado inseguendo da oramai 4/5 anni.
Ma non è questo il punto da cui iniziare. Il punto di inizio o la genesi è la mia formazione come psicomotricista; è lo spazio e il tempo che per tre anni (durata del percorso di formazione) ha ospitato la ri-scoperta del corpo, nella sua pluralità di significati e iperconnesioni (mentali, emotive, comunicative, riflessive, psicologiche, fisiche e fisiologiche, organiche, epidermiche e via elencando). Genesi che ha introdotto, da allora, la domanda relativa al corpo e alla sua dimensione pedagogica (corpo che impara corpo che insegna).
Da questa esperienza è partita gran parte della mia esistenza personale e professionale, che ha impedito di dimenticarmi del corpo che abito, del corpo che sono e del corpo che uso.
Appunto è oggi il corpo che sono e che uso, in educazione, in formazione, in psicomotricità, che posso ri-nararre, ri-esplorare e trasformare in un atto formativo.
E’ (io sono-sono io) il (mio) corpo che incontra altri corpi, che imparano, o che formano e sono formati, che insegnano, imparano insegnando, insegnano imparando, che permette di sostare in questa complessità. E in questo attraversamento, non a caso, mi incontro con Manuela, con le sue parole, la formazione diversa, simile e complementare, il pensiero che andiamo costruendo insieme …
Insieme a lei ragioniamo sulla latenza che appare in educazione, dove si parla tanto del corpo, lo si introduce nei pensieri, nei progetti, nella narrazione, lo si nomina, lo si educa .. ma come se fosse altro/altrove da noi stessi.
Il (nostro/altrui) corpo non è mai “teoria”, nemmeno quando lo si nomina in via astratta.
Eppure se ne parla come se lo fosse fuori da noi.
La domanda inesausta da allora è: ma se ci occupiamo di formazione/educazione dove collochiamo i corpi?
Scrive Salvatore Natoli “Il corpo è apertura e situazione. Siamo gettati nel modo, o meglio siamo posti e, più rigorosamente, siamo chiamati. È vero che noi siamo biologicamente casuali, però nasciamo perché qualcuno ci ha chiamato alla vita. Anche che se chi genera non ha una tale consapevolezza, noi possiamo continuare a stare al modo soltanto perché qualcuno se ne prende cura. Come dire: siamo gettati nel senso che qualcuno poteva nascere al posto nostro, mentre nessuno può morire al posto mio…. poi Natoli, sostando sulle caratteristiche proprie del corpo incarnato – da un lato depositario di una “bisognosità” che lo spinge verso un fuori – il corpo ha fame, ha sete – dall’altro chiamato, nel suo essere relazione, al bisogno dell’altro in quanto altro, ha insistito sulla finitezza del soggetto. «La nostra vita non è nostra perché ci è data e ci è tolta. In che termini, allora, posso dire che questa sia la mia vita? Mio è il modo in cui la governo e la metto a frutto. Ma questo può accadere soltanto se costruisco relazioni feconde. Ha senso un corpo rifatto che dimentica la morte e che cade nell’illusione auto prolettica, che lungi dal cercare la relazione, cerca la prestazione? La morte ci rattrista perche la vita vuole durare e perché ci sta a cuore il mondo. Cosa fare dinnanzi a questa nostro sapere di morire? Augurarsi di durare nella memoria degli altri».
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http://www.facebook.com/notes/irene-auletta/il-corpo-che-parla-e-che-educa/191384617569096
qui continua la riflessione e un bell’intreccio di altri pensieri.
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qui continua la riflessione e un bell’intreccio di pensieri.
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copio incollo la riflessione di Irene Auletta, dedicandola agli utenti che non usano facebook
“L’articolo di Monica, mi ha stimolato pensieri e riflessioni.
Ho fatto per anni bioenergetica e il corpo mi ha aiutato a ritrovare frammenti dispersi della mia essenza. Ho imparato che a volte il corpo può diventare sordo, muto, incapace di vedere e di sentire e che questa esperienza è molto più comune di quello che pensiamo. Ho imparato che proprio in quei momenti si diventa particolarmente vulnerabili e che perdere l’ascolto di noi stessi può diventare perdere il contatto con chi e quanto ci circonda.
Incontrare questa dimensione con un atteggiamento euristico per me ha voluto dire far dialogare le scoperte che mi riguardavano con ciò che accadeva nell’incontro con l’altro, fidandomi dei segnali che ho imparato sempre più ad ascoltare.
Capita spesso di dire che l’altro ci evoca sensazioni “di pelle” e quelle reazioni vanno accolte, rispettate e comprese. A proposito di corpi che si incontrano nella relazione proprio di recente ho avuto modo di fare delle riflessioni sul ruolo del male. Siamo tutti molto buonisti e spesso pensiamo al corpo e al bene che si può produrre nell’incontro.
Accade anche però che i corpi si incontrano e si fanno male, come quando pensiamo che qualcuno dicendoci una determinata cosa “ci ha dato un pugno nello stomaco”.
E noi ci accorgiamo quando lo facciamo? Quante volte pensiamo al nostro star bene e non ci accorgiamo affatto del male che facciamo al corpo dell’altro, con le nostre parole, le nostre scelte e i nostri giudizi?
Per me occuparmi di educazione vuol dire anche questo, nella continua ricerca di uno sguardo che va da ciò che accade nel mio corpo, a quello che coinvolge il corpo dell’altro e si riflette inevitabilmente nel nostro incontro.”
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davvero interessante il tema: l’intreccio di corpo ed educazione…anzi, in un certo senso il corpo è anche educazione, educa, viene educato…perchè fondamentalmente corpo e pedagogia forse attraversano entrambi i territori dell’esperienza.
E l’anima li attraversa, entrambi.
…. mi tornano in mente i “Canti dell’innocenza e dell’esperienza” di William Blake che, con il linguaggio poetico e immaginifico che lo caratterizza disegna il mondo con il “pensiero e l’anima incorporata”
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