Di Irene Auletta
Quando mia figlia era piccola, non sono mai riuscita a vivere i momenti, sereni o tragici, del mitico parchetto vicino a casa. Mia figlia era diversa e io ero diversa insieme a lei. Non mi riconoscevo in quanto dicevano e vivevano le altre mamme e allora, ne stavo lontana.
Poi ho provato a incontrare genitori che, come me, avevano figli diversi. Ma ahimè anche lì non mi sentivo affatto a mio agio. Troppo spesso sentivo che i figli venivano riconosciuti e descritti per i loro problemi e mi perdevo nell’elenco dei possibili miglioramenti, delle speranze impossibili e dei continui paragoni.
Così sono rimasta fuori da entrambi i gruppi e per molto tempo mi sono vissuta una genitorialità solitaria, che per quegli anni, andava bene così.
Ogni tanto però mi dicevo “ma che genitore sono, se non trovo uno spazio nè di qua, nè di là?”
Il passare del tempo mi ha aiutato a comprendere una grande verità della vita. Alcune cose non cambiano, nonostante la nostra ostinazione a non volerle accettare, ma può cambiare profondamente il nostro modo di guardarle.
E così, ho iniziato a guardare diversamente mia figlia e ciò che stava accadendo nel nostro incontro. La durezza e la fatica della nostra esperienza, paradossalmente, ci ha protetto da tutto quello che vivono gran parte dei genitori.
Il dover vivere centrati sul presente, il richiamo continuo all’essenza delle cose e l’incontro con l’amore puro, non contaminato da tutte le precomprensioni di cui sono capaci solo le persone definite “normodotate”, hanno fatto il resto.
E allora cosa posso insegnare a mia figlia?
Mi rispondono gli altri, quando mi parlano della sua solarità, della sua allegria, della sua tenacia e testardaggine, del desiderio di imparare, sempre e comunque.
Ogni tanto gioco con lei, raccontandole di Platone e della sua teoria delle anime. Dei figli che scelgono i genitori. “Sei proprio sicura che volevi scegliere questa mamma qui?”. “Hai visto come sono? Ti proteggo un sacco, ma sono anche tanto esigente e rompipalle?”.
Per tutta risposta, la mia adorata figlia imperfetta che mai potrà capire cosa le racconto di Platone, mi regala abbracci e sorrisi perfettissimi, mi guarda come solo gli occhi senza parole possono fare e io, con tutte le mie mancanze, ho la conferma che sto facendo del mio meglio per aiutarla a stare nel mondo.
Devo dire che nel percorso lavorativo, come educatrice professionale, ho “amato” molto ciò che mi insegnavano le mamme imperfette; sia le mamme multiproblematiche dei servizi minori (adm e comunità) e le madri di figli disabili.
Le prime, madri spesso pasticcione e sgraziate nel dare affetto – sono quelle che ho ncontrate nell’assistenza domiciliare minori – e sono quelle che si sono viste entrare in casa un educatore, come conseguenza di un severo giudizio che assegnava loro, ad opera dei servizi sociali, un bollino virtuale di mamma “così così”, o “insufficentemente buona”.
Le seconde solo le madri degli utenti della neuropsichiatria infantile o dei Cdd che per altri motivi hanno dovuto scoprire, imparare e ragionare sul bollino che si vedevano “affibbiare” a loro e ai loro figli.
Sono state le prime ad insegnarmi a guadare diversamente anche le seconde. Fino ad allora mi tornava più facile guardare solo i loro figli.
Allora sono riuscita a condividere qualcosa dell’essere persone, e donne e madri.
E non solo nella non riuscita, ma nella complessità umana che avevamo in comune.
Ma in molte mi hanno mostrato le mille strade dell’amore, così intenso da oltrepassare i limiti della disabilità dei figli, delle paure, oppure così impervio laddove le madri “così così” dovevano imparare anche ad essere donne adulte, mentre crescevano i figli, magari senza essere mai state davvero figlie e bambine.
In molte però ho visto che la strada del crescere, con e per i figli, passava da loro stesse. Dall’ammissione che andavano bene, almeno un pò, anche loro, all’ammissione che anche i figli andavano bene.
Ma è come madre che ho imparato di più, anche se talvolta è stato ed è duro ammetterlo, e ammettere sino in fondo le proprie similitudini con le madri giudicate dai servizi sociali “maldestre”, o con le altre spaventate dalle imperfezioni dei propri figli.
Una delle mie figlie è nata con il “bollino” leggero di una anomalia genetica, asintomatica. Ed è stato un lungo percorso imparare che un “bollino” (una diagnosi), non aveva aveva valore, il valore era lei e basta.
E’ stato importante, così avere esperito professionalmente e come donna quei cambi di prospettiva che ho incontrato, e che tu narri con delicatezza. Momenti in cui avviene qualcosa, in cui si impara e, se si è fortunate, si accoglie il proprio essere madri in relazione a quel figlio lì.
E’ una scoperta lunga e preziosa.
Ma per me è importante leggere ciò che scrivi, perchè riesci a evocare questo percorso in tutta la sua forza, intensità, e persino con leggerezza; la quale non nega mai ma appunto intensifica, e chiarisce.
grazie
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Sai Monica, c’è stato un momento in cui mi sono accorta che cercando di capire cosa stava succedendo a mia figlia, mi sono completamente smarrita. Il bollino degli altri mi aveva così condizionata che faticavo a riconoscermi io stessa. Perchè come dici tu, quel bollino, qualunque sia la sua entità, ti condiziona, rischia di definirti anche come genitore e ti toglierti le tue parti, le tue caratteristiche. Ricordo molto bene il momento in cui mi sono chiesta cosa potevo insegnare a “questa figlia qui” e quando mi sono chiesta ma io cosa so fare? chi sono? Se la diversità di mia figlia mi aveva tolto il mio spirito ottimista (nel senso più profondo del termine), la mia tenacia e la mia voglia di attraversare la profondità con leggerezza, allora avevo già perso ogni possibilità! Da lì una strada in lieve discesa che ancora oggi proseguo tenendo per mano mia figlia da una parte e suo padre dall’altra.
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Grazie di queste parole.
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“nè di qua, nè di là”….giusto ieri sera una giovane mamma di un bimbo con disabilità mi riproponeva quanto tu hai scritto…
e già, prima, ci pensavo rispetto al mio sentirmi spesso tra due mondi….chissà, sicuramente per “storia” personale (oltre che professionale, per la verità…) ma, magari, anche per altro…magari alcuni di noi per un insieme di motivi sono più propensi a viversi in profondità le zone “soglia”.
Che le dee ci vengano in aiuto anche questa volta?
Da Wikipedia: ‘Ecate era una divinità psicopompa, in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli Dei ed il regno dei Morti. Spesso è raffigurata con delle torce in mano, proprio per questa sua capacità di accompagnare anche i vivi nel regno dei morti (la Sibilla Cumana, a lei consacrata, traeva da Ecate la capacità di dare responsi provenienti, appunto, dagli spiriti o dagli Dei).
Dea degli incantesimi e degli spettri, Ecate è raffigurata come triplice (giovane, adulta/madre e vecchia), ed il numero Tre la rappresenta; le sue statue venivano poste negli incroci (trivi), a protezione dei viandanti (Ecate Enodia o Ecate Trioditis)”.
Ecate mi ha colpito perchè è lei che avvisa Demetra sul luogo in cui ritrovare la figlia….è una dea dallo sguardo particolare, quindi. Traghettatrice e messaggera. I cui occhi sono molto sensibili sia alla luce che alle ombre.
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