… in quella stanza P. è seduto su divano. SI guarda attorno. E’ un tipo elegante, anche se veste in modo decisamente casual, decido che deve avere circa 34/35 anni, ma di quei trentenni che sembrano già adulti, e non mantengono quel fascino acerbo ed immaturo. Sa di uomo fatto, ha un paio di baffi che rendono il viso interessante. Sembra a prima vista uno che si tiene sempre un pò distante da tutto, ma una innata cortesia sembra invece tenerlo lì, seduto, educato e attaccato a quel divano.
Conosco anche i genitori, una famiglia di industriali, con ottime possibilità economiche. Mi dicono che, se le cose fossero andate altrimenti, lo avrebbero mandato P. a studiare al Harward, la distanza non li avrebbe spaventati; sono abituati ad offrirgli tutto il meglio che possono sia in termini economici che materiale che affettivo.
In effetti con l’andare del tempo si capisce che P. è abituato al meglio, dal cachemire del maglione, alla camicia su misura, dalle scarpe di ottima fattura. Gli basta entrare in un negozio di calzature e siatene certi … vi indicherà, senza leggerne il prezzo, il paio di scarpe più costoso.
P. è un uomo affetto da autismo, molto grave, non parla. Comunica gli stati di disagio ma per i resto del tempo , che trascorre nel centro che lo accoglie, resta isolato a guardare la vita che scorre.
Ma i suoi genitori continuano ad offrigli ciò che possono, esattamente come gli avrebbero offerto l’iscrizione ad una delle principali università americane. E quindi viaggi e vacanze, cure, attenzioni, abbigliamento curato.
E’ loro figlio, no!?
E’ prima di tutto P., un figlio, che oltre ai baffi, a un viso interessante, 34 anni della loro vita, è accessoriamente anche autistico.