Riprendo la riflessione si servizi e alle strane identità che si costruiscono attorno.
O meglio ai miti che assumono per spiegare chi sono.
Nel post precedente dicevo:
“ho transitato x varie equipes negli anni, e la cosa che mi colpiva era la “coloritura pedagogica” che si portava dietro, alcune categorie sono interessanti:
Educare come peso, pesantezza, fatica, tristezza, e un pò di noia
Educare come esercizio di muscolatura, poter essere più forte di un altro, (avere le “palle”)
Educare come fragilità, convivere con vasi di cristallo, lentezza, delicatezza, ma anche astenia”
Se non che si tratta di colori indelebili, di miti che sembrano giustificare quasi l’esistenza in vita del servizio, come se – perdendo il mito di riferimento – anche il servizio smetterebbe di esistere.
Così resiste/esiste chi vuole mantenere ed alimentare quel mito, chi lo persegue, chi cerca di giustificarlo.
Ossia gli educatori che declinano la loro responsabilità educativa, che vorrebbe vederli ad interrogare il mito e sfatarlo, per coltivarlo come fondativo. Quando invece dovrebbero riportare il servizio ad una vitalità meno cristallizzata.
L’educatore che fortifica il mito del “pugno di ferro” in relazione all’educare degli adolescenti, e lo persegue come modello del suo servizio, e addirittura lo identifica come necessità, mission del servizio,rischia di ridurre l’educare a quell’unico mito, con le conseguenze immaginabili …